“Ognuno ha un posto in cui tornare” il racconto di Letizia Marzorati

Dopo il suo ultimo viaggio in Bosnia, Letizia Marzorati, attivista di Iscos Lombardia, ha scritto un articolo per la rivista “Orticaria” de Le Sfogliatelle, un’associazione culturale di Cantù. Durante il viaggio Letizia ha visitato anche le due realtà, Uz Nera e Jadar, che in Bosnia Erzegovina collaborano con Iscos Lombardia nell’attivazione di progetti per l’empowerment femminile e l’indipendenza economica delle donne.
Buona lettura!
“Ognuno ha un posto in cui tornare” – il mio ultimo viaggio in Bosnia
di Letizia Marzorati
Erano circa le sette di sera dello scorso 7 novembre, camminavo per la Titova, una grande strada di Sarajevo che lambisce il centro storico e si dipana verso il tristemente celebre “viale dei cecchini”.
Mi spostavo chiacchierando con i miei compagni di viaggio, mostrandogli qualche edificio particolare quando ho sentito qualcosa che mi si avvicinava, in maniera improvvisa, sconvolgente ma anche così profondamente potente: era un abbraccio di Ajla, una ragazza sorda che ho conosciuto all’SOS Village di Sarajevo, nel 2011 all’età di cinque anni, che mi aveva riconosciuto. Non siamo riuscite a dirci nulla, ci siamo solo abbracciate e ci siamo commosse.
Ho iniziato con questo piccolo racconto perché descrive bene il mio rapporto profondo con la Bosnia, che è iniziato nel 2011 e che ad oggi conta all’attivo nove viaggi tra le diverse esperienze di volontariato e le opportunità di conoscere meglio il territorio.
Se nei primi anni, il mio impegno è stato più di animazione con i più piccoli, proprio all’SosVillage, una delle ancora numerose strutture ricettive per minori presenti in città, dal 2019 ho avviato una collaborazione con Iscos (Istituto Sindacale per la Cooperazione allo Sviluppo) Lombardia e Iscos Emilia Romagna, che, tra i numerosi progetti, supportano l’iniziativa femminile, sia a livello imprenditoriale che associazionistico, affinché le donne possano giocare un ruolo fondamentale nel lungo e dissestato percorso verso la pace, in un paese come la Bosnia, dal tessuto sociale sfilacciato e fragile.
Il viaggio di quest’anno è iniziato con una prima tappa nella zona di Banja Luka, un territorio dove le spinte nazionaliste sono ancora molto forti e dove una delle questioni più scottanti è la memoria legata all’esistenza di tre campi di detenzione e tortura presenti nell’area di Prijedor, a Keraterm, Omarska e Trnopolje.
Tra le testimonianze più significative ascoltate c’è quella di Nusreta, una donna che quando furono attivati i campi nei primi anni 90 esercitava la professione di giudice, questo non l’ha salvata dalle terribili persecuzioni etniche, tanto che anche lei venne internata e subì violenza. Con grande coraggio, da qualche anno, racconta la sua storia a persone come noi, attivisti e volontari, perché questo triste capitolo della storia della Bosnia non venga dimenticato.
Per me, la tappa a Sarajevo, come accennavo all’inizio di questo articolo, è stata una vera propria immersione nei ricordi, ma ogni volta è una riscoperta di luoghi e persone interessanti, con una loro storia da raccontare.
In questa occasione, ho avuto l’opportunità di visitare per la prima volta il Museo dell’Infanzia di Guerra di Sarajevo, che è stato aperto nel 2017, e racchiude alcuni oggetti appartenuti a coloro che vissero la guerra civile da bambini: memorie tangibili che raccontano le storie di chi li ha posseduti. Nel 2017, il Museo ha vinto il premio Museo del Consiglio d’Europa e ha iniziato ad allargare il proprio sguardo verso altri conflitti, raccogliendo anche oggetti provenienti dall’Afghanistan, dall’Iraq, dalla Siria, dall’Eritrea e negli ultimi mesi dall’Ucraina.
Il giorno successivo abbiamo visitato il memoriale Potocari a Srebrenica, un luogo che preserva la memoria di una delle peggiori stragi della storia recente: si stima che in quell’area, nei giorni attorno all’11 luglio 1995 siano state uccise circa diecimila persone. Un lume di speranza, però, si è acceso in quella zona: l’associazione Jadar a KonjevićPolje, opera per potenziare il ruolo delle donne attraverso il rafforzamento delle loro competenze in modo che possano partecipare alla vita economica e sociale del loro paese.
Incontrare queste donne e sentirsi accolti è stata una grande iniezione di fiducia: sia per quello che avevamo visto poche ore prima a testimonianza di una storia tragica, sia per il futuro della Bosnia da sempre avvolto dallo spettro di nuovi possibili conflitti.
Nel nostro ultimo giorno a Sarajevo abbiamo avuto l’opportunità di visitare una scuola dove i giovani delle tre diverse etnie presenti nel Paese studiano assieme e siamo stati ricevuti dall’Ambasciatore italiano a Sarajevo, Marco Di Ruzza, che ci ha ribadito quanto siano ben intessuti i rapporti tra Italia e Bosnia, soprattutto sul piano economico e culturale.
Negli ultimi giorni ci siamo spostati da Sarajevo verso sud, avendo come meta finale Mostar, passando dalla cittadina di Konjic, famosa perché ospita il bunker che Tito fece costruire all’internodi una montagna per potersene avvalere in caso di attacco nucleare.
In questa tappa, abbiamo incontrato le donne dell’associazione Uz Nera, che promuove l’artigianato e la creatività al femminile, trainata dalla forza di Dina Alic, fondatrice del sodalizio che nei mesi scorsi è stata duramente colpita da una grave forma di covid.
Le ultime ore di questa esperienza a Mostar sono state di riposo e contemplazione di questa cittadina, che pur portando dei segni del conflitto, è una località splendida dal punto di vista architettonico, dominata dal celebre ponte.
Come dicono in un loro brano i Ministri, band milanese nata nei primi anni duemila, “Ognuno ha un posto in cui tornare” e questo è quello che la Bosnia rappresenta per me: un luogo ricco di complessità che è sempre in grado di donarmi occasioni di riflessione sul presente, ma anche un luogo che sta cercando di costruirsi un futuro di speranza, in cui le donne possono finalmente fare la loro parte.